Edizione 2011
Editore : Il Maestrale
Pagine: 140
New Price!! Su sito Mondadori € 9,75
Nella zona portuale di una città innominata, sotto la pioggia di un’alba gelida, un ragazzo spinge una sedia a rotelle con sopra un vecchio inebetito. Il ragazzo punta verso l’unico, malfamato, bar aperto a quell’ora. Porterà il gelo anche là dentro, fra gli avventori, quando a un barista svogliato e scontroso dirà platealmente che sua madre s’è appena impiccata e che, se non porta subito un caffè al padre sulla sedia a rotelle, si ammazzerà anche il vecchio. Come la vita di Ermes e Ivan, padre e figlio con troppi anni di differenza, sia arrivata fino a questo punto si saprà ascoltando il racconto delle 36 ore precedenti. L’odissea urbana di due giorni è narrata dalla voce di un ragazzo costretto a crescere molto in fretta fra una giovane madre cantante d’opera di modesto talento, in fuga da tutti e da se stessa, e l’assistenza al padre, ex burattinaio, menomato nel corpo e nella mente. Un precipitare di eventi, aperto dall’impatto con la morte violenta, costringe a un’ulteriore comprensione del mondo, che può risultare persino peggiore di come il protagonista se l’era immaginato. E gli avvenimenti impongono una nuova dolorosa lettura del passato che porta alla percezione di una inquietante verità, ma può anche portare a riscrivere il proprio futuro.
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Intervista a Franco Calandrini di Massimo Maugeri / Letteratitudine Kataweb
da Letteratitudine
Franco Calandrini (Ravenna 1961), produttore di documentari, corti e videoclip fino alla fine degli anni Novanta, ha in seguito fondato due festival di cinema: Corto Imola Film Festival e Ravenna Nightmare Film Fest che tuttora dirige. La raccolta completa dei racconti, intitolata “”Io non so fare niente”, pubblicata da Giovane Holden Edizioni, è stata tra i finalisti del Premio Letterario “Vladimir Nabokov” e ha ottenuto una Menzione Speciale alla XX Edizione del Concorso Nazionale Letterario “Garcia Lorca”. E’ colpa di chi muore” è il suo primo romanzo.
Ecco la scheda del libro:
“Nella zona portuale di una città innominata, sotto la pioggia di un’alba gelida, un ragazzo spinge una sedia a rotelle con sopra un vecchio inebetito. Il ragazzo entra nell’unico, bar aperto a quell’ora. Porterà il gelo là dentro, fra gli avventori, quando a un barista svogliato e scontroso dirà platealmente che sua madre si è appena impiccata e che, se non porta subito un caffè al padre sulla sedia a rotelle, si ammazzerà anche il vecchio. Come la vita di Ermes e Ivan, padre e figlio con troppi anni di differenza, sia arrivata fino a questo punto si saprà ascoltando il racconto delle 36 ore precedenti. L’odissea urbana è narrata dalla voce di un ragazzo cresciuto molto in fretta fra una giovane madre modesta cantante d’opera, in fuga da tutti e da se stessa, e l’assistenza al padre, menomato nel corpo e nella mente. Un precipitare di eventi, aperto dall’impatto con la morte violenta, costringe a un’ulteriore comprensione del mondo, che può risultare persino peggiore di come il protagonista se l’era immaginato. E gli avvenimenti impongono una nuova dolorosa lettura del passato che porta alla percezione di una inquietante verità, ma può anche portare a riscrivere il proprio futuro”
Franco Calandrini (Ravenna 1961), produttore di documentari, corti e videoclip fino alla fine degli anni Novanta, ha in seguito fondato due festival di cinema: Corto Imola Film Festival e Ravenna Nightmare Film Fest che tuttora dirige. La raccolta completa dei racconti, intitolata “”Io non so fare niente”, pubblicata da Giovane Holden Edizioni, è stata tra i finalisti del Premio Letterario “Vladimir Nabokov” e ha ottenuto una Menzione Speciale alla XX Edizione del Concorso Nazionale Letterario “Garcia Lorca”. E’ colpa di chi muore” è il suo primo romanzo.
Ecco la scheda del libro:
“Nella zona portuale di una città innominata, sotto la pioggia di un’alba gelida, un ragazzo spinge una sedia a rotelle con sopra un vecchio inebetito. Il ragazzo entra nell’unico, bar aperto a quell’ora. Porterà il gelo là dentro, fra gli avventori, quando a un barista svogliato e scontroso dirà platealmente che sua madre si è appena impiccata e che, se non porta subito un caffè al padre sulla sedia a rotelle, si ammazzerà anche il vecchio. Come la vita di Ermes e Ivan, padre e figlio con troppi anni di differenza, sia arrivata fino a questo punto si saprà ascoltando il racconto delle 36 ore precedenti. L’odissea urbana è narrata dalla voce di un ragazzo cresciuto molto in fretta fra una giovane madre modesta cantante d’opera, in fuga da tutti e da se stessa, e l’assistenza al padre, menomato nel corpo e nella mente. Un precipitare di eventi, aperto dall’impatto con la morte violenta, costringe a un’ulteriore comprensione del mondo, che può risultare persino peggiore di come il protagonista se l’era immaginato. E gli avvenimenti impongono una nuova dolorosa lettura del passato che porta alla percezione di una inquietante verità, ma può anche portare a riscrivere il proprio futuro”
- Franco Calandrini, come nasce “E’
colpa di chi muore”?
Nasce in po’ come tutte le altre cose che ho scritto, anche quelle molto meno fortunate: perché “non avevo niente da fare”, mi verrebbe da dire citando il poeta. Io non appartengo alla categoria di scrittori divorati dal fuoco della creazione. Non ho grandi urgenze. Essendo arrivato alla scrittura per caso e in così tarda età nessuno aspettava il mio romanzo, per cui mi son preso tutto il tempo che serviva.
Comunque il processo della creazione è davvero divertente: getti l’esca, pasturi un po’ e aspetti che le idee si raggruppino attorno l’amo. A volte sono semplici suggestioni, a volte invece solide come fossero già state scritte, solo da ricopiare. E allora ti chini sulla tastiera e ti butti a testa china, slalomando tra un paletto e l’altro, quasi stupito di quello che stai scrivendo. Poi le rileggi e decidi se buttarle e o tenerle o, come succede quasi sempre, lavorarle e lavorarle fino ad arrivare ad una versione soddisfacente.
“È colpa di chi muore” nasce comunque dall’esigenza di mostrare l’esistenza di un universo morale in cui vivere e operare le proprie scelte, diverso da quello del sentire comune o dalla morale comune, che merita di essere rappresentato. Non è vero che tutti siamo colpevoli o che tutti dobbiamo caricarci o scontare “le colpe dei padri” perché così è, o perché è così che deve essere. La vita, l’esperienza, l’età ci porta a pensare in questo modo, ma c’è un momento nella nostra vita in cui ti senti nel giusto, perché quello che fai ha una morale oggettivamente inattaccabile , perché ancora non sei sceso a compromessi, perché ancora non ti sei sporcato le mani. Non hai colpe, ma non perché tu non le abbia realmente, ma perché tu non te le senti addosso. C’è un’età in cui niente di quello che di brutto succede può essere attribuito a te, tu vivi nel giusto, hai solo certezze, non hai ancora fatto scelte definitive per cui potresti fare ancora tutto. C’è un età in cui tutto ti è dovuto per il solo fatto che esisti e perché pensi di meritarlo. I primi problemi, i primi insuccessi – quando arriveranno, perché stai certo che arriveranno – ti sembreranno solo incidenti di percorso. Tu non hai colpa di niente di quello che ti succede attorno e nemmeno di quello che succede nel mondo esterno (là, dove c’è “il grande freddo” direbbe Lawrence Kasdan), la colpa di tutto è sempre degli altri, perfino di chi muore. Un momento irrepetibile nell’arco dell’intera vita, quasi magico, in cui ti senti invincibile, di cui perdiamo memoria. Questo libro serve un po’ anche questo, a ricordarci quando eravamo puri, nel giusto, integralisti anche, infantili egocentrici, certo, ma più puliti di adesso.
- Da quale fonte di ispirazione… ?
Io non ho fantasia, per niente proprio, per cui attingo al mondo reale, alle cose che ho vissuto e alle persone che ho incontrato. Ovviamente per non essere querelato o insultato, altero il pH, ma il composto è quello. Comunque, sub-plot a parte, i cardini su cui poggia la storia sono quattro: il senso di giustizia; il teatro; la degenerazione celebrale; la morte.
1. Il senso di giustizia qui è rappresentato da
Ivan, il moralista, che somiglia molto ad un ragazzo che ho conosciuto tanti
anni fa e che ha il proprio omologo letterario nel Jimmy Porter di Ricorda con
rabbia. Un carattere (inteso nell’accezione drammaturgica) e che è mi è rimasto
impresso talmente tanto, che anche in altri racconti che ho scritto, in un modo
o nell’altro viene fuori. Non so perché, ma prima o poi lo scopro. Sono
affascinato da chi ha un’idea della vita così netta, del senso di giustizia
così puro e assoluto, da questo tipo di integralismo infantile ed innocuo,
tutto sommato.
2. Il Teatro, qui rappresentato sia dai I mimi della lirica, che dai burattini di Ermes, è un luogo (anche mentale) a cui torno sempre volentieri. Lo spettacolo che cita Ermes (Il Tarlantan della Moscovia) è un classico del Teatro di Figura, l’ho visto da bambino quando Monticelli, il capostipite di una Famiglia di burattinai lo portava nelle scuole elementari di tutta Italia, e quando posso lo riguardo ancora con grande emozione; I Mimi della Lirica li ho visti veramente in azione, e come Ermes mi sono commosso veramente la prima volta che ho assistito ad un loro spettacolo, dimenticando totalmente (rimuovendo in quanto, non significante) che si trattava di una rappresentazione in playback. La loro dedizione e la consapevolezza del ruolo che occupano nell’arte è commovente.
3. La degenerazione celebrale, quando la vedi da vicino, manifestarsi in una persona che ami, per quanto tragica diventa una cosa di cui ci puoi perfino ridere. Ma di cui ridere “con”, non ridere “di”. Ci sono degli appuntamenti nel processo di degenerazione che sono inarrestabili e nel momento in cui la vittima è cosciente di quello che gli sta accadendo sono davvero strazianti. Superata quella fase, anche se sai che è una strada senza ritorno, tutto diventa più semplice e accettabile e naturale. Naturale, come la vita e la morte.
4. Ovviamente, su tutto e tutti, pesa la madre, viva o morta che sia. Ma questo era implicito.
Comunque, anche se nessuno me l’ ha chiesto, vi do sette motivi per cui dovreste comprare il libro di un esordiente cinquantenne: 1) è stato scelto da Edizioni Il Maestrale, e vi assicuro che, a parte me che non mi conoscete e di cui fate bene a dubitare, pubblica solo gente seria!) 2) è adatto ad ogni età: ed infatti ci si può identificare in chiunque: dal ventenne incazzato col mondo intero, al settantenne bollito, alla quarantenne depressa con tendenze suicide (esistono altre categorie?); 3) ed è adatto ad ogni ceto culturale: sono autodidatta e scrivo in modo molto elementare; 4) ed è pure adatto ad ogni ceto sociale, dato che il prezzo ( se lo comparate in rete, e già che ci siete visto che state leggendo questo articolo, approfittatene) è molto popolare; 5) ho una percentuale sulle vendite, e se l’intervista vi è piaciuta avete modo di dimostrarlo concretamente; 6) se arrivo alla prima ristampa di sicuro me ne pubblicheranno un altro; 7) si legge in un week end, per cui l’impegno è davvero limitato, dopodiché, come dice Carver, citando Cechov (e adesso voglio vedere chi si perde la chiusura!) potete “passare alla prossima occupazione: la vita. Sempre la vita”.
2. Il Teatro, qui rappresentato sia dai I mimi della lirica, che dai burattini di Ermes, è un luogo (anche mentale) a cui torno sempre volentieri. Lo spettacolo che cita Ermes (Il Tarlantan della Moscovia) è un classico del Teatro di Figura, l’ho visto da bambino quando Monticelli, il capostipite di una Famiglia di burattinai lo portava nelle scuole elementari di tutta Italia, e quando posso lo riguardo ancora con grande emozione; I Mimi della Lirica li ho visti veramente in azione, e come Ermes mi sono commosso veramente la prima volta che ho assistito ad un loro spettacolo, dimenticando totalmente (rimuovendo in quanto, non significante) che si trattava di una rappresentazione in playback. La loro dedizione e la consapevolezza del ruolo che occupano nell’arte è commovente.
3. La degenerazione celebrale, quando la vedi da vicino, manifestarsi in una persona che ami, per quanto tragica diventa una cosa di cui ci puoi perfino ridere. Ma di cui ridere “con”, non ridere “di”. Ci sono degli appuntamenti nel processo di degenerazione che sono inarrestabili e nel momento in cui la vittima è cosciente di quello che gli sta accadendo sono davvero strazianti. Superata quella fase, anche se sai che è una strada senza ritorno, tutto diventa più semplice e accettabile e naturale. Naturale, come la vita e la morte.
4. Ovviamente, su tutto e tutti, pesa la madre, viva o morta che sia. Ma questo era implicito.
Comunque, anche se nessuno me l’ ha chiesto, vi do sette motivi per cui dovreste comprare il libro di un esordiente cinquantenne: 1) è stato scelto da Edizioni Il Maestrale, e vi assicuro che, a parte me che non mi conoscete e di cui fate bene a dubitare, pubblica solo gente seria!) 2) è adatto ad ogni età: ed infatti ci si può identificare in chiunque: dal ventenne incazzato col mondo intero, al settantenne bollito, alla quarantenne depressa con tendenze suicide (esistono altre categorie?); 3) ed è adatto ad ogni ceto culturale: sono autodidatta e scrivo in modo molto elementare; 4) ed è pure adatto ad ogni ceto sociale, dato che il prezzo ( se lo comparate in rete, e già che ci siete visto che state leggendo questo articolo, approfittatene) è molto popolare; 5) ho una percentuale sulle vendite, e se l’intervista vi è piaciuta avete modo di dimostrarlo concretamente; 6) se arrivo alla prima ristampa di sicuro me ne pubblicheranno un altro; 7) si legge in un week end, per cui l’impegno è davvero limitato, dopodiché, come dice Carver, citando Cechov (e adesso voglio vedere chi si perde la chiusura!) potete “passare alla prossima occupazione: la vita. Sempre la vita”.
È colpa di chi muore
by Valentina Presti Danisi "Il recensore"
L’atmosfera di “È colpa di chi
muore” (Il Maestrale, 2011) è quella cupa e sospesa di un
nubifragio che dura da giorni, ma che sembra eterno. In questa dimensione
liquida, un giovane vede fluire tutto il suo passato doloroso, mentre affronta
il momento peggiore della sua vita. A trentasei ore dal
suicidio della madre, Ivan tira le somme della sua giovane
esistenza, trascorsa a inseguire il fantasma di lei da una parte, e a prendersi
cura del padre malato dall’altra.
Trentasei ore di gelo, atmosferico come
interiore, di risposte elusive a domande che si fanno sempre meno convinte, di
ricordi che il tempo non ha edulcorato.Cantante lirica di scarso
successo, sposata a un uomo molto più grande di lei, la figura materna di questo
libro è “una donna in bilico”, “traballante”: “con lei
ogni giorno era un traballio: una festa o una tragedia, mai una via di
mezzo”.
Incapace di affrontare la malattia del marito e le
responsabilità familiari, la donna sceglie di fuggire nel mondo illusorio dello
spettacolo, intrappolata nei suoi sogni di gloria anche quando la cortina è
ormai calata. Anche la scelta del suicidio è,
agli occhi del figlio, una fuga: per lei è tutto risolto, ha raggiunto il suo
sospirato “lieto fine”, mentre i sopravvissuti si ritrovano a scontare le pene
di una vita disgregata, di problemi e dilemmi più grandi di loro.
È l’amarezza per questo
abbandono definitivo che fa dire a Ivan: “Non provo pena,
non mi viene da piangere, non sento niente se non l’impressione di un pezzo di
carne che mi si è staccato di dosso, ma di cui avevo già imparato a fare a
meno”.
All’altro apice di questo
triangolo familiare, il padre Ermes. Ex burattinaio ridotto su una sedia a
rotelle, l’uomo mostra un carattere difficile anche nei rari momenti di
lucidità. Tra lui e il figlio si è istaurato un rapporto di dipendenza, dove il
rancore spesso prende il sopravvento sull’affetto, dove la
dolorosa routine dei gesti e delle parole mantiene a stento una traccia
dell’originaria tenerezza. Nella rabbia nei confronti del padre, Ivan trova uno
sfogo per il suo malessere: “Non lo voglio toccare, già ho toccato mia madre
e non avrei dovuto: la morte e la vecchiaia sono contagiose”.
Mentre va in scena l’ultimo
spettacolo di sua madre, ricomposta e bellissima nella sua bara, l’aspetto
pragmatico della morte viene affidato a una zia che “introduce tutti a
tutti, accompagna i più sensibili alla porta e i più morbosi alla bara, con
qualcuno sorride, con altri fa lo sguardo rammaricato”. A Ivan non resta
che farsi da parte con i suoi pensieri e i suoi dubbi. Si
chiede cosa è successo davvero nella camera da letto dove ha ritrovato il corpo
di lei, e dove suo padre continuava a leggere tranquillamente il giornale,
ignaro di quanto era avvenuto.
Cerca di ricostruire gli ultimi
momenti della vita di sua madre, strappando a stento brandelli di
verità dalla mente offuscata del padre. Almeno fino a quando
deve arrendersi di fronte alla stanchezza e all’incombere delle tenebre:
“appoggio la testa al finestrino gelido e vedo i lampioni che si spengono al
nostro passaggio. Che sia un segno? Di cosa poi?”.
“È colpa di chi muore”
restituisce al lettore tutto il senso di desolazione e
solitudine di un personaggio incapace di vivere la propria
normalità, perché schiacciato dalle figure maestose e pervasive dei suoi
genitori. Un personaggio alla disperata ricerca di stralci di ricordi a cui
aggrapparsi per potersi sentire umano, capace di provare di nuovo dei
sentimenti: “So che dovrei essere disperato, quantomeno dispiaciuto, so che
dovrei soffrire ma proprio non mi riesce”.
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